Dopo quell’inaugurazione in grande stile nel 2013 con la mostra “La carne e lo spirito”, la Chiesa di San Francesco, tristemente sconsacrata, ha riaperto i battenti, ma solo grazie alla tenacia di Vincenzo Pennacchi che si ripropone con un nuovo vernissage. Un’opera imponente dal titolo “E la nave va” a cura di Gaia Conti e nell’abside una mostra nella mostra dal titolo “Pranzo domenicale del precipitare della dissoluzione” a cura di Fabio Benincasa, realizzata a sei mani da Angelo Colagrossi, Mauro Magni e Vincenzo Pennacchi. Un’enorme mandorla di 7 metri dai richiami simbolici, poggia su di un altare laico, dove due sposi consumano il rito della vita e della morte, della dissoluzione e della trascendenza, dando così una nuova sacralità alla Chiesa. Tutto sa di sacro e profano, a cominciare dall’istallazione centrale dalle volumetrie architettoniche surreali. E’ lo stile inconfondibile di Vincenzo Pennacchi. Un lampo improvviso in un cielo ovattato, amorfo e incolore, un boato assordante che scuote le membra e accende i riflettori su un corpo sensoriale e percettivo. E’ proprio lui: Vincenzo Pennacchi, l’eterno viandante sui sentieri dell’esistenza, pronto a partire come Diogene con la sua lanterna, alla ricerca di un “logos”in cui specchiarsi per riconoscersi in un interludio di Eros e Tanathos. Ma non è un solitario chiuso nel suo eremo, da anni insegue il sogno della sua “ Domus “ ideale in cui star bene con se stessi e soprattutto con gli altri platealmente invitati alla condivisione. Poter comunicare le proprie esperienze sensoriali è un punto focale della sua tematica, anche se, lo confesso, bisogna essere degli “iniziati” per entrare nel suo mondo, abbandonando ogni preconcetto, chiudendo gli occhi e lasciandosi trasportare dal dolce tintinnio degli specchi dalle mille vibrazioni sonore come onde in un mare placido. Non mancano mai gli specchi, ora splendenti ora deformanti, ce n’è uno per ogni stato d’animo perchè le sue domus sono spazi immensamente chiusi, universi introspettivi in cui proiettare gli orridi volti insanguinati di una bolgia infernale che, in un ineffabile prodigio, si purifica per diventare l’Eden della mente e perdersi nel mare dello spirito. L’onda sonora del pensiero guarda se stessa riflettersi in un “dire per immagini”. Forme composite in assemblaggi improbabili, dove la disgregazione degli elementi primari si fonde su ampie campiture in una continuità segnica. Un prolifico processo di contaminazione alla ricerca di nuovi linguaggi, inedite traiettorie, tensioni diacroniche e contrapposte ma pur sempre traducibili in segni verbali fuori dalle convenzioni. Nella liturgia delle immagini d’altronde non c’è sistema comparabile, né una tecnica compositiva che consenta di aprirsi a ciò che non è ancora pensato ma solo percepito. C’è solo lo schiudersi all’aura dell’ignoto. Il mistero penetra come un raggio incandescente nel cuore della speranza, ma anche nelle pieghe del dolore. D’altronde non si può uscire dal labirinto esistenziale senza soffrire, si partorisce nel dolore, bisogna attraversarlo tutto il cunicolo tra gli urli e gli spasmi della carne, tra i dubbi e le incertezze dello spirito. Ma solo così nasce una nuova vita e finalmente “La nave va”.