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QUANDO FELLINI INVENTÒ FELLINI

Avvicinarsi a Fellini significa accostarsi alla vita.

Il pretesto per ricordarlo è l’attuale ricorrenza. Un secolo fa sbocciava nel mondo, il 20 di gennaio.

Data di nascita reale: 1920.

Data di nascita simbolica: 1942, dal momento in cui soleva ripetere “io sono nato il giorno in cui ho visto Giulietta (moglie) per la prima volta”. Fu un “coup de foudre” disse lei.

L’anno è un’inezia.

Guardare Fellini per guardare (dritta in faccia) la sublime arte di saper far cinema.
Guardare Fellini per guardare l’arte ancor più sublime di saper vivere.
E allora è il caso di dirlo, anzi, di urlarlo come fosse un vagito recondito che esplode: “azione!”.
Avanti. Avanziamo al fianco del Maestro onnipresente e invisibile dietro al braccio meccanico della macchina da presa, un braccio a cui egli si è aggrappato nel corso di un’intera esistenza; l’inquadratura, la finestra alla quale si è affacciato maggiormente e sua insondabile passione (insieme all’amore nutrito per la moglie Giulietta Masina), suo insondabile mistero; quell’occhio vetroso perennemente puntato agli attori, perennemente all’inconscio!
Eccola, è là. Sulla pellicola arde una fiamma rubiconda, eppure, è ricoperta da melanconiche venature bluastre. Candela eternata, la pellicola sa catturarla. Sa immortalare quella creatura fugace tanto vagheggiata e inseguita come un canto di sirena, la vita graffiante eppur divina che egli scorse come un’unica, gigantesca visione.
La vita, luogo sacro e inviolabile per eccellenza come una chiesa in cui si finisce per caso (pensiamo a Marcello e a Steiner in La dolce vita), una navata palpitante densa di pianti o di risa che talvolta osano mescolarsi in una struggente processione, un girotondo farsesco (Otto e mezzo) che è sfilata infinita di pagliacci, di ladri, di sognatori, di sgualdrine, di bighelloni e di randagi, di vittime e carnefici, soprattutto, un baluginare d’eroine ed eroi; oppure no.
Sotto al velo mistificatore dell’apparenza, dietro all’assordante bugia dell’etichetta il Maestro svela, in ognuno, un universo umano che grida d’esser dissotterrato dalle dissacranti convenzioni che ancora affliggono la nostra società. Questa la sua vera forza, la vera magia.
L’io creativo di Federico è precoce, risonante, quasi prepotente. Sbuca fuori nell’adolescenza, libidico e terapeutico, ma già da bambino egli aveva plasmato la cameretta (locus amoenus e roccaforte dell’infanzia) in un regno fantastico. Si esprime sul foglio per mezzo di penna e matita; parte dai disegni, vignette in cui una realtà grottesca si fa screziata d’onirico.
In fondo, che cos’è la scrittura imminente e ancor più la regia ventura, se non la matura evoluzione degli schizzi giovanili; essi trovano posto in una storia, sequela d’inquadrature caricaturali, finestrelle spalancate come in un calendario dell’avvento.
L’artista può “razziare” qua e là da un mondo che appassisce “fuori dai cancelli”, per “trasportare” quello che definisce essere “un enorme, meraviglioso deposito” negli amati teatri di Cinecittà, set prediletti ed estensione della cameretta, l’habitat dell’incanto e del risveglio proustiano.
La poetica del Fellini è racchiusa in una sequenza emblematica di Le notti di Cabiria, 1957, Premio Oscar 1958 al miglior film straniero.
Cabiria (Masina) è una donna di strada ripetutamente derubata, abbandonata come fosse una vettura rotta. Spogliata di tutti i suoi averi, si dispera riversandosi sulla sponda di Castel Gandolfo, quand’ecco, dopo lo sfogo riacquista le forze. Cabiria si solleva e comincia a camminare nel folto del bosco.
Qualcosa pare chiamarla, in lontananza risuona una musica. Spunta dal nulla come un folletto su di una provinciale. Avanzando sulla strada è accolta da un capannello goliardico di giovani in festa che la accerchia. “Buonasera” le fa una ragazza docilmente.
La parola è il tocco magico, uno schiocco di dita. Cabiria è finalmente inclusa. In un baleno non è più sola.
Sul volto le torna il sorriso. Sorge sotto occhi inumiditi, come un sole sormontato da due nuvole grondanti.
La donna saluta la comitiva: fa cenno a loro, e a noi. Sì, alla fine tutto andrà bene.
Il saluto allegro di Cabiria è il saluto affettuoso di un regista al suo pubblico.
Lo sguardo in macchina, un memorabile omaggio che esorta all’azione sulle orme della sua eroina.
“Fare un film è come fare un viaggio, ma del viaggio m’interessa la partenza, non l’arrivo.
Il mio sogno è fare un viaggio senza sapere dove andare, magari senza arrivare in nessun posto” disse il regista.
L’essenziale non è che Cabiria arrivi, bensì che possa rinvenire dentro di sé una forza indomita per sollevarsi e per avanzare, rispondendo all’entusiastica chiamata della musica, della vita.
Sebbene nel pellegrinaggio artistico felliniano (a volte laico, a volte religioso, sempre spirituale e con una punta beat) confluiscano vistosi stralci neorealisti, sebbene il set-angolo di strada sia pure quadrato d’un ring spietato su cui si lotta per la sopravvivenza, il peso dello stare al mondo è smorzato da uno stile estroso, infine, da un ottimismo rincuorante.
Dopotutto, nella formula l’amaro c’è e non è poco, ma cade dall’appellativo di una vita che resta solo dolce.

Alessandra Grecco Russo

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