Intervista a Irene Ferri
25 Marzo 2016
Maria Cristina Corsini
25 Marzo 2016

Mea culpa

Bisogna ammettere i propri errori. È una buona pratica. Aiuta a non ripetere gli stessi sbagli, quando c’è una consapevolezza dell’errore compiuto. E noi abbiamo sbagliato. Non soltanto chi vi parla, ma un po’ tutti i giornalisti italiani, salvo, ovviamente, qualche sporadica, lodevole eccezione. Impegnati com’eravamo a occuparci degli scenari internazionali, della crisi libica, della Siria, della Turchia, del problema dei migranti, delle primarie negli Stati Uniti, dei delittacci nel nostro Paese, delle amministrative a Roma, Napoli e Milano e dei mille episodi di corruttela a cui assistiamo da anni nel nostro Paese, abbiamo lasciato che ci scivolasse addosso una notizia che in altri tempi avrebbe meritato un’attenzione ben maggiore rispetto agli spazi striminziti che le abbiamo dedicato.
E così, lo sterminio di quattro suore Missionarie della Carità, ad opera di sanguinari terroristi nella città di Aden nello Yemen, è passata quasi inosservata, stretta tra un episodio di cronaca e i quarti di finale di Champion’s league. E la nostra indifferenza, la sottovalutazione di quell’eccidio è terribile, perché è come se avessimo abbandonato quelle quattro suorine nelle mani dei loro carnefici, impegnati com’eravamo a occuparci d’altro.
Si chiamavano Suor Annselna, suor Margarita, suor Reginette e suor Judith. Venivano dall’India, dal Rwanda, dal Kenia. La più giovane aveva 32 anni. La più anziana 57. Erano Missionarie della Carità, la congregazione fondata da Madre Teresa di Calcutta senza alcun intento di proselitismo se non quello di fare la carità e di stare vicino ai bisognosi, ai più deboli. Le hanno trucidate lo scorso quattro marzo, gli uomini di un commando terrorista che, alle 8,30 del mattino, hanno fatto irruzione nella casa di cura per anziani in cui prestavano il loro servizio ad Aden. “Morte ai cristiani” hanno gridato i terroristi con le armi in pugno. Scappate, ci uccidono, ha urlato l’autista, che è stato il primo ad essere ucciso, poi è stata la volta di altri undici collaboratori della casa per anziani. Suor Sally, la superiora, è scampata alla morte solo perché al momento dell’irruzione si è trovava dietro una porta, e i terroristi non l’hanno vista. Le suore sono state uccise per ultime. I demoni le hanno sfigurate prima di finirle, sono saliti in piedi sui loro corpi. Alla fine della mattanza i morti erano sedici. I carnefici hanno terminato la loro opera distruggendo tutto quello che potevano: il crocefisso, l’altare, il messale, la Bibbia… Le suore avevano ancora indosso, sopra la veste bianca, il grembiule blu che indossavano quando servivano i malati. Erano state già minacciate, le suorine di Aden, ma avevano deciso di restare, perché la loro congregazione, insieme ai voti comuni agli altri ordini religiosi, che sono quelli della povertà, della castità e dell’obbedienza, unisce quello supremo dell’offerta di sé agli ultimi della terra. Come fece per la prima volta Madre Teresa, nella casa del cuore puro, il primo ospizio da lei fondato nel ’52 a Calcutta per dare conforto agli ammalati terminali. “Vivere e morire coi poveri”, diceva Madre Teresa. E così è stato per le religiose di Aden. Le altre consorelle, che occupano altre tre case della misericordia a Sana’a, la capitale dello Yemen, hanno deciso di restare, nonostante il significato di quella strage sia chiaro, e parli anche a loro, in un paese come lo Yemen che non garantisce loro nessuna protezione. Quelle suore sono state uccise in odio alla fede e alla carità che manifestavano.
“Questi sono i martiri di oggi!” Ha detto Papa Francesco nel corso dell’Angelus del 6 marzo scorso. “Per loro non ci sono copertine di giornali, loro non sono notizie. Questi martiri danno il loro sangue per la chiesa. Sono vittime dell’attacco di chi li ha uccisi, e anche dell’indifferenza”, ha detto il Papa.
E il richiamo era a noi, operatori dell’informazione, presi come siamo a registrare i cambiamenti del mondo e a cercare di interpretarli sottovalutando un simile segnale.
Ora, se fossi stato io solo ad aver valutato male quell’eccidio, catalogandolo come un episodio minore dei tempi duri che viviamo, dovrei preoccuparmi solo della mia scarsa capacità di analisi. Ma invece la disattenzione è stata collettiva, la distrazione ha riguardato quasi l’intero panorama giornalistico nazionale. C’è da chiedersi allora come sia potuto accadere, a cosa è dovuta questa perdita di sensibilità collettiva. Perché consideriamo normale che sedici persone muoiano trucidate, che i corpi di quattro suorine vengano calpestati e umiliati, senza che veniamo assaliti da un moto di sdegno, da un brivido?
Cosa ci è accaduto? Possibile che il nostro livello di tolleranza all’orrore si sia così elevato da non sussultare neanche un po’ al di sotto di certe cifre? Se non sono almeno una trentina di morti neanche ci facciamo un titolo? Qual è il numero di vittime sufficienti a guadagnarsi uno spazio in pagina?
O forse quei morti non fanno notizia perché sono persone di fede, votate al possibile martirio? Possibile che sia questa la zavorra collettiva che ha frenato le penne di tutta la stampa nazionale?
Forse la “globalizzazione dell’indifferenza”, quella di cui parlò Papa Francesco nel corso del suo primo viaggio pastorale a Lampedusa, ha colpito anche noi.
Ed è terribile. Perché girando la testa dall’altra parte, abbiamo favorito il lavoro degli assassini delle quattro suorine. E la nostra indifferenza suona oggi come un insulto alla loro memoria.

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